Locazione: mancata restituzione dell’immobile, il conduttore è tenuto al pagamento del canone salvo il maggior danno subito dal locatore
La Corte di Cassazione, con la pronuncia del 16 luglio 2019 n. 18946, ha evidenziato come l’art. 1591 c.c. assicuri al locatore danneggiato dalla ritardata restituzione della cosa locata una liquidazione automatica del danno, incentrata sulla presunzione secondo cui esso dovrà essere almeno pari al canone precedentemente pagato. Tale presunzione è assoluta, il conduttore non può eccepire di aver cagionato un danno minore alla misura del canone pattuito ma è obbligato a versarlo quale corrispettivo della prosecuzione del rapporto, anche se non voluta dal locatore. Tale somma costituisce un risarcimento di danno da mora, e, pertanto, inteso come debito di valore.
Occorre segnalare che sulla natura di tale risarcimento vi è orientamento contrario che lo ritiene di valuta, seppur avente funzione risarcitoria su fondamento contrattuale (Cass. 20/06/2017, n. 15146; 14/02/2006, n. 318).
Il locatore, dunque, avrà diritto a percepire una somma pari al canone pagato precedentemente, salvo il risarcimento del maggior danno che dovrà essere provato in concreto.
Cassazione Civile, Sezione III, sentenza n. 18946 del 16 luglio 2019
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 19135/2017 R.G. proposto da:
O.T. (nato il (OMISSIS)) e O.S.,
rappresentati e difesi dall’Avv. Giuseppe Pezzano;
– ricorrenti –
contro
F.M. e O.G., rappresentati e difesi dall’Avv.
Mario Liscio, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via degli Estensi, n. 91;
e nei confronti di:
O.T. (nato (OMISSIS)) e Ol.Gi.;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari, n. 422/2017, pubblicata il 10 maggio 2017;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7 giugno 2019 dal Consigliere Emilio Iannello;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del primo motivo.
Fatto
FATTI DI CAUSA
- All’esito della fase di merito di procedimento per convalida di sfratto, per quanto ancora di esso interessa, in accoglimento delle domande proposte da O.S. e T. nei confronti di F.M., il Tribunale di Foggia, Sezione distaccata di Cerignola, ha dichiarato risolto per inadempimento di quest’ultima il contratto di locazione ad uso non abitativo intercorso tra le parti, condannando l’intimata al rilascio dell’immobile e al pagamento del complessivo importo di Euro 27.554,12, oltre interessi, imputato in parte (Euro 14.667,18) a canoni scaduti e non pagati dall’1/1/2004 al 1/11/2009, in parte (Euro 12.886,94) a “mensilità figurative” dovute, in base al valore di mercato stimato dal c.t.u., per il periodo di protratta occupazione dell’immobile dal 1/12/2009 al 30/9/2011.
Ha invece dichiarato inammissibile l’estensione della domanda di risarcimento del danno per la protratta occupazione dell’immobile nei confronti dell’interveniente O.G., coniuge della F..
- Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Bari in parziale accoglimento dell’appello interposto da F.M. ha limitato la somma dalla stessa dovuta al solo importo di Euro 14.667,18, escludendo la fondatezza della pretesa riferita dai locatori al periodo compreso tra il 1 dicembre 2009 (prima mensilità successiva all’intimazione di sfratto) e il 30 settembre 2011 (data di esecuzione del sequestro giudiziario ordinato in corso di causa): ciò in ragione della accertata insussistenza, ancora nel 2013 al momento del deposito della c.t.u., delle condizioni di agibilità, manutentive e impiantistiche, necessarie per la destinazione dell’immobile ad uso commerciale e, dunque, della impossibilità di ritenere provato il maggior danno ex art. 1591 c.c., costituendo, in detto contesto, il valore locativo indicato dal consulente tecnico d’ufficio, “parametro virtuale e non attuale”.
Ha conseguentemente dichiarato assorbito il motivo dell’appello incidentale proposto dai predetti locatori, con il quale gli stessi avevano reiterato la domanda di condanna (anche) dell’interveniente O.G. al risarcimento dei danni conseguenti alla protratta occupazione dell’immobile nel periodo predetto.
- Avverso tale decisione O.T. e S. propongono ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resistono F.M. e O.G. depositando controricorso.
Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.
I ricorrenti e i controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1224,1587 e 1591 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c., e, contestualmente, “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, in relazione al mancato riconoscimento della dovutezza del canone nel periodo successivo alla intimazione di sfratto fino all’esecuzione del sequestro (1/12/2009 – 30/9/2011).
Lamentano, in sintesi, che la Corte d’appello ha azzerato del tutto l’importo posto a carico della conduttrice con riferimento al periodo di protratta occupazione dell’immobile, incentrando tuttavia la sua valutazione solo sulla spettanza del maggior danno e così trascurando di considerare che, a prescindere dall’eventuale sussistenza di questo, ai sensi dell’art. 1591 c.c., il conduttore in mora quanto all’obbligo di restituire la cosa è comunque tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna (termine che, sostengono, andrebbe più correttamente individuato al 18/7/2013, data di deposito della sentenza di primo grado).
- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1590,1591,2697 e 2729 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., e, contestualmente, “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per avere la Corte d’appello ritenuto mancante la prova del maggior danno, sebbene proprio le precarie condizioni manutentive in cui è stato rilasciato l’immobile e l’entità dei lavori necessari per ricollocarlo sul mercato dovessero farne presumere il ritardo per tale ricollocazione, con conseguente perdita di chance in capo ad essi richiedenti.
Sostengono inoltre i ricorrenti che l’utilizzazione dell’immobile ad uso commerciale, da parte degli odierni resistenti, per oltre quarant’anni, la sua centralissima ubicazione e l’interesse di terzi, emerso dalle testimonianze acquisite, avrebbero dovuto giustificare il convincimento circa l’esistenza di più vantaggiose potenzialità di sfruttamento locativo.
Assumono ancora che il danno avrebbe dovuto considerarsi in re ipsa.
- Con il terzo motivo i ricorrenti deducono, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1219,1587 e 1591 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c., e, contestualmente, “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per avere la Corte d’appello ritenuto assorbita, dal rigetto della domanda nei confronti di F.M., la domanda di risarcimento del danno proposta anche nei confronti di O.G..
- Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 91,92,283 e 351 c.p.c., in relazione alla operata compensazione per metà delle spese di primo e secondo grado nel rapporto con l’appellante principale F.M..
Lamentano che a tal fine la Corte territoriale ha omesso di considerare che in primo grado la predetta risultò totalmente soccombente, che l’appello dalla stessa proposto è risultato per tre quarti infondato ed era stata pure rigettata l’istanza di inibitoria dalla stessa proposta ai sensi dell’art. 351 c.p.c..
- E’ fondato il primo motivo di ricorso, nei termini e nei limiti appresso precisati.
5.1. Ai sensi dell’art. 1591 c.c., “il conduttore in mora nella restituzione della cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”.
Secondo pacifica interpretazione, quella disciplinata dalla prima parte di detta norma è un’obbligazione risarcitoria da inadempimento contrattuale, normativamente determinata, salvo il risarcimento dell’eventuale maggior danno (previsto nell’ultimo inciso), da dimostrare in concreto (Cass. 07/02/2006, n. 2525; 24/05/2003, n. 8240; v. pure Cass. 07/06/1995, n. 6368; 27/10/1966, n. 2660).
L’art. 1591 c.c., assicura, in altre parole, al locatore danneggiato dalla ritardata restituzione, una liquidazione automatica del danno, incentrata sulla presunzione secondo cui esso deve essere almeno pari al canone precedentemente pagato. Trattasi di presunzione assoluta, che non ammette prova contraria, se non in senso più favorevole al locatore (Cass. n. 6368 del 1995; n. 2660 del 1966, citt.): il conduttore in mora non può eccepire che il danno subito dal locatore è inferiore alla misura del canone, ma deve continuare a versare quest’ultimo, quale corrispettivo di una prosecuzione – non voluta dal locatore – della relazione di godimento con la res non ancora restituita.
Il canone convenuto costituisce, quindi, solo il parametro di riferimento per la quantificazione del risarcimento minimo spettante; versando il relativo importo, il conduttore che continua ad occupare l’immobile dopo la cessazione del contratto non adempie l’obbligazione di “dare il corrispettivo nei termini convenuti” (ai sensi dell’art. 1587 c.c., n. 2), bensì risarcisce un danno da mora, così adempiendo un’obbligazione risarcitoria che si sostituisce a quella contrattuale di pagamento del canone (Cass. n. 2525 del 2006; n. 8240 del 2003, citt.) e che costituisce, pertanto, debito di valore (v. Cass. 03/10/2013, n. 22592; 10/03/2010, n. 5843, sia pure non con riferimento all’art. 1591 c.c.; in senso contrario, ma solo sulla specifica questione della natura del debito, ritenuto di valuta anzichè di valore, ferma la sua funzione risarcitoria su fondamento contrattuale, Cass. 20/06/2017, n. 15146; 14/02/2006, n. 318).
5.2. Nel caso di specie i suesposti principi non sono stati tenuti presenti dal giudice a quo; segnatamente risulta del tutto obliterata la distinzione, come visto netta e pacifica nella giurisprudenza di questa Corte, tra primo e secondo periodo dell’art. 1591 c.c., comma 1.
La Corte infatti, verosimilmente a ciò indotta anche, come subito appresso sarà detto, dai termini usati nella sentenza di primo grado (“mensilità figurative”), ha motivato esclusivamente sugli oneri probatori da osservarsi da parte del locatore per il riconoscimento del “maggior danno” ex art. 1591 c.c., comma 1, ultimo inciso, trascurando tuttavia di considerare il diritto del locatore ad ottenere comunque, ai sensi della prima parte della medesima disposizione, il riconoscimento di un danno (per così dire “minimo”), presunto iuris et de iure e parametrato ai canoni dovuti in costanza di rapporto.
Al riguardo però il ricorso consente di rilevare, alla stregua di una esposizione sufficientemente rispettosa degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6, riscontrata dalla lettura degli atti richiamati e prodotti, che:
- a) nella sentenza di primo grado (v. par. 7, pag. 11) l’importo di Euro 14.667,18 venne liquidato a titolo di canoni scaduti e non pagati fino al momento della anticipata cessazione del rapporto per effetto della intimazione di sfratto, cioè per prestazioni contrattuali maturate a carico della conduttrice quando era ancora vigente il contratto, non a titolo di risarcimento per mancata restituzione (il credito in tale misura riconosciuto non era dunque in nulla riferibile alla previsione di cui all’art. 1591 c.c., comma 1);
- b) per il periodo successivo il tribunale liquidò (v. par. 8, pag. 12 della sentenza medesima) il risarcimento del danno da protratta occupazione (questo sì dunque riconducibile alla previsione di cui all’art. 1591 c.c., comma 1) quantificandolo nell’ammontare di Euro 12.886,94, pari all’importo (Euro 585,77) del canone mensile ottenibile in astratto dall’immobile, quale stimato dal c.t.u. in base a valori di mercato (valore locativo), moltiplicato per n. 22 mensilità comprese tra la predetta cessazione del rapporto (1/12/2009) e l’attuazione del sequestro giudiziario ordinato in corso di causa (30/9/2011).
Il tribunale adottò sul punto una motivazione certamente distante dai principi sopra richiamati (e sui quali ancora appresso si tornerà nell’esame del secondo motivo), facendo erroneo riferimento a un danno figurativo o in re ipsa, derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile; quel che però qui importa rilevare è che l’importo mensile (Euro 585,77), e quello complessivo finale (Euro 12.886,94) liquidati dal tribunale, non si aggiungono ad altri importi (mensile e complessivo) per così dire “base”, liquidati per il periodo predetto in misura corrispondente al canone in precedenza corrisposto, ai sensi della prima parte dell’art. 1591 c.c., comma 1; essi piuttosto sono omnicomprensivi e comprendono pertanto, come il più comprende il meno, il minor importo, pari a (Euro 206,58 al mese x 22 mensilità =) Euro 4.544,76, che avrebbe comunque dovuto riconoscersi ai locatori in base a detta norma (quale danno minimo, presunto iuris et de iure).
E’ evidente pertanto che la Corte d’appello, negando la spettanza di detto importo per intero (e ciò motivando esclusivamente con l’impossibilità di riconoscere nella specie un “maggior danno”) è incorsa nel denunciato error iuris (per violazione dell’art. 1591 c.c.), apprezzabile per aver utilizzato argomenti (impossibilità di configurare un concreto sfruttamento locativo successivamente alla cessazione del rapporto) che, se valgono effettivamente a escludere la spettanza del “maggior danno” e, dunque, della differenza tra Euro 12.886,94 ed Euro 4.544,76, non valgono invece ad escludere la spettanza di quest’ultimo importo, ossia del risarcimento minimo del danno presunto iure et de iure, rapportato al canone mensile in precedenza dovuto.
5.3. Nè può sostenersi – con i controricorrenti (v. pagg. 8-9 del controricorso) – che, affinchè la Corte potesse operare un tale distinguo, sarebbe stata necessaria la proposizione, da parte dei locatori/appellati, di pertinente motivo, sul punto, di appello incidentale, ancorchè condizionato.
5.3.1. Il tema del risarcimento del danno da inadempimento dell’obbligo di restituzione dell’immobile era stato infatti interamente devoluto al giudice di secondo grado per effetto dell’appello principale della conduttrice che, oltre a riproporre eccezione processuale di inammissibilità della relativa domanda perchè nuova, ne aveva contestato nel merito la dovutezza in ragione (si legge nella sentenza qui impugnata) della “inidoneità dell’immobile ad essere adibito a locazione”.
Con tale doglianza la Corte d’appello era dunque investita della questione relativa alla fondatezza della domanda di risarcimento del danno nella sua interezza, non potendo alla sua valutazione sul piano del diritto derivare alcun vincolo.. nè dalla qualificazione datane dal primo giudice, nè dalle ragioni dedotte dall’appellante.
E’ noto infatti che, per costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, il giudice d’appello ha il potere di attribuire al rapporto in contestazione una qualificazione giuridica diversa da quella emergente dalla sentenza di primo grado o prospettata dalle parti, avendo egli il potere-dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia, anche in mancanza di una specifica impugnazione e indipendentemente dalle argomentazioni delle parti, purchè nell’ambito delle questioni riproposte col gravame e con il limite di lasciare inalterati il petitum e la causa petendi e di non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (cfr. ex plurimis Cass. 31/07/2015, n. 16213; 03/04/2009, n. 8142; 23/02/2006, n. 4008; 11/09/2007, n. 19090).
Nè, in proposito, può dubitarsi che, nella specie, il contenuto della domanda sottoposto al nuovo vaglio del giudice d’appello per effetto del gravame proposto dall’appellante principale fosse tale – per causa petendi e petitum – da consentire e anzi richiedere un vaglio della Corte d’appello anche sotto il profilo in considerazione.
L’art. 1591 c.c., comma 1, prevede un solo obbligo risarcitorio, identico e non mutevole quanto a presupposti e fondamento giuridico (risarcimento danni da responsabilità contrattuale). Diverso è solo il regime probatorio: per una parte minima (pari al canone) il danno, come s’è ripetuto, è presunto iuris et de iure; per la parte eventualmente eccedente (maggior danno) va concretamente provato e non può ritenersi in re ipsa.
Con l’appello principale la conduttrice tendeva a negare in radice la spettanza di ogni obbligo risarcitorio; indipendentemente dalle argomentazioni a tal fine proposte (come s’è detto valide e pertinenti solo in parte, in quanto riferite al maggior danno), la “questione” con esso proposta investiva pertanto, come detto, per intero la domanda di risarcimento danni e per ciò stesso interpellava il potere-dovere del giudice d’appello di valutarne in diritto la fondatezza, eventualmente anche solo parziale, sulla base degli elementi di fatto ritualmente acquisiti, senza come detto essere vincolato alle argomentazioni del primo giudice o delle parti.
5.3.2. Per converso nessun interesse potevano avere i locatori a proporre appello incidentale sul punto (il quale dunque, se fosse stato proposto, avrebbe dovuto considerarsi inammissibile); nè vi era spazio per un appello incidentale condizionato, non essendo per quanto detto distinguibile all’interno del descritto tema di lite una “questione” per la quale i locatori erano rimasti soccombenti, diversa da quella per la quale erano invece risultati vittoriosi nell’esito finale della lite.
La questione esaminata era invero, come detto, unica e identica nel suo fondamento e presupposti: risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione dell’immobile locato; a cambiare era solo il regime di prova di detti presupposti, ossia dei danni; l’attenzione a tale mutevole regime di prova (per una parte di danno minimo risolventesi in una presunzione assoluta, per la parte eventualmente eccedente richiedendo esso invece una prova positiva) pertineva all’attività qualificatoria in diritto della domanda, e come tale era attribuita al giudice indipendentemente dalle argomentazioni delle parti e non costituiva “questione” autonoma e diversa soggetta alle preclusioni proprie della disciplina delle impugnazioni.
In tale contesto ad escludere dunque la possibilità/necessità di un appello incidentale, ancorchè condizionato, è dirimente il rilievo che, nella specie, i locatori si erano visti accolta, per il periodo in questione, in massima misura la domanda di risarcimento del danno ex art. 1591 c.c., comma 1, risultando pertanto sul punto vittoriosi e in nessuna misura soccombenti, non potendo costituire idonea ragione di gravame il rilievo che, a giustificazione di tale esito pienamente favorevole, il tribunale avesse adottato una ragione giuridicamente erronea.
Nè può attribuirsi conseguenza processuale di sorta al fatto che, nel costituirsi nel giudizio di appello, essi non abbiano (per quanto risulta) contrapposto al gravame della conduttrice il rilievo della inconducenza delle argomentazioni proposte con riferimento al risarcimento (minimo) del danno presunto.
Trattandosi infatti di mera difesa, per ragioni di diritto, la sua mancata proposizione non impediva al giudice d’appello di operare ex se detto rilievo, nell’esercizio, come detto, del suo potere-dovere di autonoma qualificazione della domanda.
5.4. Mette conto sul punto soggiungere infine che l’obbligo risarcitorio deve essere parametrato con limitato riferimento al periodo intercorrente dal 1/11/2009 (prima mensilità successiva all’intimazione di sfratto, momento che segna la scadenza anticipata del contratto per effetto della sua risoluzione per inadempimento) al 30/9/2011 (data di esecuzione del sequestro giudiziario ordinato in corso di causa), e non, come incidentalmente sostenuto in ricorso, al 18/7/2013 (data di deposito della sentenza di primo grado).
Ciò per una duplice ragione:
– anzitutto perchè a tale periodo era correlato il risarcimento, da protratta occupazione dell’immobile, riconosciuto in primo grado, e non risulta nemmeno dedotto che una sua diversa parametrazione temporale fosse stata richiesta in grado d’appello degli appellanti incidentali, odierni ricorrenti;
– in ogni caso perchè, come precisato dalla già richiamata giurisprudenza, vertendosi in tema di risarcimento del danno, ed essendo il risarcimento correlato al danno effettivamente subito, l’importo dovuto dall’occupante, non più a titolo di canone, ma di risarcimento per la protratta occupazione, deve essere correlato al periodo di effettiva occupazione: effettiva occupazione che deve certamente ritenersi venuta meno per effetto del disposto sequestro in corso di causa, il quale evidentemente ha proprio lo scopo di sottrarre la disponibilità e il godimento del bene a quello dei contendenti che lo occupava per affidarlo in custodia a terzo nell’interesse e a vantaggio della parte che all’esito del giudizio risulterà averne diritto.
- Il secondo motivo prospetta diverse censure, che vanno distintamente scrutinate.
6.1. Occorre invero anzitutto notare che nell’intestazione del motivo, evidenziata in grassetto alle pagg. 14-15 del ricorso, lo stesso sembra far riferimento ad un danno determinato dalle precarie condizioni in cui è stato restituito l’immobile e dal ritardo per una sua utile ricollocazione sul mercato pari al tempo occorrente per l’esecuzione dei lavori a tal fine necessari.
Per tale parte il motivo è inammissibile.
Quello ivi considerato, infatti, è un danno diverso da quello ad oggetto della sola domanda che risulta trattata sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, rappresentato dalla protratta occupazione dell’immobile nel periodo compreso tra la scadenza del contratto, conseguente alla sua risoluzione, e l’effettivo rilascio del bene.
Sul punto (ossia sulla omessa considerazione di un tale diverso pregiudizio) non risulta proposto motivo di gravame, nè tantomeno in questa sede censura di omessa pronuncia, con i richiesti requisiti di specificità ex art. 366 c.p.c., n. 6.
6.2. Nella parte in cui poi, nella restante diffusa parte illustrativa, sembra ritornare sui binari segnati dal tema trattato in giudizio (maggior danno ex art. 1591 c.c.), il motivo si appalesa in parte infondato, in altra parte inammissibile.
6.2.1. Una prima disamina va dedicata, in ordine logico, all’assunto (espresso al termine del paragrafo, pag. 18 del ricorso, primi due periodi) secondo cui sarebbe al riguardo predicabile l’esistenza di un (maggiore) danno in re ipsa, in consonanza alla giurisprudenza che tale concetto utilizza con riferimento al danno subito dal proprietario per l’occupazione sine titulo del proprio immobile da parte di terzi.
Al riguardo è sufficiente rilevare che l’evocata giurisprudenza (peraltro di recente sottoposta ad attenta rivisitazione critica: v. Cass. 25/05/2018, n. 13071; 04/12/2018, n. 31233; cui adde Cass. 24/04/2019, n. 11203) fa riferimento a casi diversi da quelli del danno da inadempimento dell’obbligo di restituire la cosa locata ex art. 1591 c.c., per il quale annoso e pacifico indirizzo, altrove peraltro richiamato dagli stessi ricorrenti, ha sempre costantemente affermato che tale maggior danno deve essere concretamente provato dal locatore, richiedendosi la specifica prova dell’esistenza del danno medesimo, in rapporto alle condizioni dell’immobile, alla sua ubicazione e alle possibilità di nuova sua utilizzazione, nonchè all’esistenza di soggetti seriamente disposti ad assicurarsene il godimento dietro corrispettivo, dalle quali emerga il verificarsi di un’effettiva lesione del patrimonio (Cass. 12/12/2008, n. 29202; 16/09/2008, n. 23720).
6.2.2. Il motivo è poi inammissibile nella restante parte, là dove deduce violazione delle regole in tema di presunzioni semplici o degli artt. 115 e 116 c.p.c. ovvero, ancora, vizio di motivazione.
In particolare, la critica al ragionamento presuntivo seguito dalla Corte di merito, sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 2729 c.c., non rispetta i criteri e i requisiti al riguardo indicati di recente, sulla falsariga di giurisprudenza precedente, da Cass. Sez. U. 24/01/2018, n. 1785 nei termini seguenti:
“la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare (come altrove venne sostenuto: Cass. n. 17457 del 2007; successivamente. Cass. n. 17535 del 2008; di recente: Cass. n. 19485 del 2017) sotto i seguenti aspetti:
- aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;
- bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.
Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com’è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l’idea che vorrebbe sotteso alla “gravità” che l’inferenza presuntiva sia “certa”).
La precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.
La concordanza esprime – almeno secondo l’opinione preferibile – un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.
Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.
Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.
In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.
Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.
Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).
In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti.
Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito ha omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria”.
Ebbene, nella specie, l’illustrazione del motivo non prospetta la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve talora solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli elementi acquisiti e già diversamente valutati dal giudice di merito.
Ne segue che il motivo non presenta le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, ma si risolve nella sollecitazione di una nuova lettura delle risultanze processuali in termini, peraltro, chiaramente eccedenti il paradigma censorio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (posto che chiaramente il fatto storico di cui si discute risulta esaminato dal giudice di merito e così anche le prove testimoniali delle quali in sostanza si auspica in ricorso solo una diversa e più favorevole valutazione).
Esso peraltro non si confronta con la precipua ratio decidendi sul punto spesa in sentenza, rappresentata, come detto, dalla accertata insussistenza, ancora nel 2013 al momento del deposito della c.t.u., delle condizioni di agibilità, manutentive e impiantistiche, necessarie per la destinazione dell’immobile ad uso commerciale.
6.2.3. Allo stesso modo anche la censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è priva di fondamento, in quanto non risulta articolata nel modo in cui le Sezioni Unite l’hanno detto deducibile: “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla valutazione delle prove” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).
Devesi altresì ricordare che “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 21238 del 2016; Cass. n. 2141 del 1970).
6.2.4. Del tutto generica e priva di alcuna spiegazione è infine l’indicazione, tra le norme asseritamente violate, dell’art. 2697 c.c..
E’ appena il caso in proposito di rammentare che, secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, p. 14) “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. n. 23594 del 2017, cit.; Cass. 17/06/2013, n. 15107).
Nella specie, come detto, la contestazione, meramente oppositiva, attiene piuttosto al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.
- All’accoglimento del primo motivo, nei termini sopra esposti, consegue l’accoglimento del terzo e l’assorbimento del quarto.
In virtù delle considerazioni che precedono viene infatti meno l’unica ragione per la quale il giudice d’appello ha ritenuto di non dover procedere all’esame della domanda di condanna, al risarcimento del danno da protratta occupazione, nei confronti di O.G..
La sentenza impugnata deve dunque essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata al giudice a quo.
Avuto riguardo alla peculiarità della questione trattata e ai profili di carattere processuale per certi aspetti inediti affrontati nell’esame del primo motivo, si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; rigetta il secondo; dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione.
Compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2019
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